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Attivo dal 1734 al 1861
L'Esercito delle Due Sicilie, spesso citato nei testi come Real Esercito o Esercito napoletano o impropria-mente Esercito borbonico

Si sono spese molte parole negative sull’esercito del Regno delle Due Sicilie, spesso inquadrato come un organismo eccessivamente dinastico ed indisciplinato sotto l’aspetto tattico. In realtà esso fu uno strumento militare molto valido che, in diversi momenti, si contraddistinse per un elevato livello di efficienza e pericolosità.

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Figura cardine della sua nascita fu Carlo di Borbone. Dopo la conquista delle Sicilie il re aumentò le sue milizie a 40 battaglioni di fanteria, 18 di cavalleria, un corpo considerevole di artiglieri ed uno d’ingegneri.

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Nel 1740 l’esercito napoletano contava 18.000 fanti, suddivisi in 14 reggimenti, 25.000 cavalieri e dragoni in 7 reggimenti, oltre alle guardie reali, Svizzeri, l’artiglieria e qualche corpo ausiliario. Nel 1786 si ebbero importanti riforme grazie all’impegno del segretario di guerra e marina John Acton. Il bilancio militare, fermo in quegli anni a 2,7 milioni di ducati, ascese a 3.180.000 ducati. Le iniziali 15.000 unità vennero raddoppiate grazie alla presenza di volontari. L’esercito di Ferdinando IV, a differenza di quanto si crede, fu protagonista di ottime prove a Tolone, Malta e nelle guerre di Russia dove si mostrò sempre ben organizzato tanto da destare l’ammirazione e il plauso di Napoleone Bonaparte.

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Fu caratteristica di questo periodo la fioritura di istituti d’istruzione militare che dovevano disciplinare, secondo i dettami della più sofisticata scienza militare, quegli uomini che avrebbero ricoperto ruoli di comando. Napoli rispose prontamente a questa nuova corrente in quanto nel 1744 venne istituita l’accademia d’artiglieria e nel 1754 quella degli ingegneri; nel 1769 entrambe vennero fuse nella Reale Accademia Militare.

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Dopo le due parentesi francesi ed il ritorno dei Borbone, le truppe necessitavano di una riorganizzazione. Ferdinando I (precedentemente Ferdinando IV), però, conservò i provvedimenti e le migliorie apportate dai Napoleonidi. Dopo aver riunito sotto di sé il Regno di Napoli e quello di Sicilia in un unico Stato, fece lo stesso con i rispettivi eserciti. A partire dal 1816 una serie di provvedimenti riorganizzava le armate delle Due Sicilie in divisioni militari territoriali. La fusione degli eserciti di Napoli e Sicilia avvenne con successo e vennero decretati 60.000 effettivi in tempo di pace.

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Ferdinando II, a differenza del padre e del nonno, aveva grandissima fiducia nelle capacità militari dell’esercito, organismo verso il quale dedicò moltissime attenzioni ed energie. Il re aprì la sua stagione di riforme militari migliorando il corredo delle armi e la disciplina delle sue armate. Naturalmente predisposto al comando ebbe una grande presa sulle milizie che lo servirono con sincera fedeltà, tale situazione rese possibile la creazione di uno strumento efficace per la sicurezza esterna e la stabilità interna.

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Nel decennio conclusivo del Regno delle Due Sicilie l’esercito e la marina erano forniti di ogni cosa e il Collegio della Nunziatella fu vivaio inesauribile di eccellenti ingegneri militari. Alla vigilia dello sbarco di Garibaldi, l’armata di Francesco II contava circa 3.000 ufficiali e 90.000 soldati. L’ultimo Borbone, spesso dipinto come incapace al comando, anche nel momento peggiore e sebbene mal consigliato dai suoi ministri, diede ottime direttive militari rimanendo, però, sostanzialmente inascoltato. Tardivo fu lo scatto d’orgoglio delle milizie che determinò la vittoria sul Volturno. Molto più valorosi dei generali, ormai non più legati alla causa di Francesco II, si dimostrarono i soldati. La loro abnegazione e lealtà nei confronti della dinastia li portò a Gaeta, eletta ad ultimo baluardo della monarchia borbonica, teatro di un assedio disumano durato 102 giorni.

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Il 10 marzo 1861 l’esercito dei Borbone delle Due Sicilie terminava la sua storia.

 

Fonte: vesuviolive.it

Altre fonti:
– Tommaso Argiolas, Storia dell’esercito borbonico.
– G. Boeri, P. Crociani, M. Fiorentino, L’esercito borbonico dal 1830 al 1861.
– Mariano d’Ayala, Napoli militare.

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Fu la forza armata terrestre del nuovo Stato indipendente creato dall'insediamento della dinastia borbonica nel meridione d'Italia in seguito agli eventi della guerra di successione polacca. Il 1734, anno in cui il corpo di spedizione di Carlo di Borbone conquistò le province napoletane e siciliane strappandole al vicereame austriaco, segnò infatti anche la creazione dei primi reggimenti interamente "nazionali", affiancati ai reggimenti stranieri con cui l'Infante don Carlo era disceso in Italia.[1]

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La vicenda di questo esercito si inserisce naturalmente nello stesso spazio di tempo in cui visse la dinastia di cui fu sostegno: dal 1734 al 1861. Tuttavia, in seguito alla restaurazione ed alla successiva istituzione del Regno delle Due Sicilie, tale forza armata fu profondamente riorganizzata, inglobando anche gli elementi dell'esercito napoletano di età napoleonica. Dopo il 1816, quindi, fu adottata la denominazione ufficiale di Reale Esercito di Sua Maestà il Re del Regno delle Due Sicilie; quest'ultimo, assieme all'Armata di Mare, costituiva le forze armate del Regno delle Due Sicilie[2].

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Le radici spagnole

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Sebbene l'Esercito delle Due Sicilie sia sorto solo nel 1734, le istituzioni militari napoletane e siciliane vantano una storia molto più antica, che pone i suoi fondamenti nell'organizzazione di un esercito "demaniale" (cioè statale e non più feudale) da parte di Ferrante d'Aragona nel 1464[3]. In particolare il periodo vicereale spagnolo (1503-1714) segnò profondamente le consuetudini militari del successivo periodo borbonico. Durante questo arco di tempo i soldati dell'Italia meridionale furono infatti coinvolti in quasi tutte le vicende militari dell'Impero Spagnolo (dalle guerre di Carlo V alle guerre delle Fiandre, dalle campagne coloniali in America alla guerra dei trent'anni), spesso dando prova di grande valore e fedeltà alle autorità imperiali[4]. I capitani, appartenenti alla migliore nobiltà feudale delle province napoletane e siciliane, seppero bene inquadrare e preparare i sudditi dei due viceregni alla guerra, ubbidendo al fermo indirizzo politico dato dai monarchi di Spagna.

Nel successivo periodo borbonico però, con la riconquista dell'indipendenza, la nobiltà perse gradualmente questo carattere militare, cedendo il passo alla nuova politica accentratrice di impronta dinastica. L'obiettivo dei Borbone era infatti quello di sostituire la fedeltà ai vecchi comandanti nobili, che avevano servito per oltre 200 anni gli Asburgo, con un'esasperata fedeltà alla nuova corona nazionale. Questo progressivo sganciamento dalle obsolete tradizioni iberiche, promosso dalle riforme volute da Ferdinando IV, provocò nel XVIII secolo uno stato di "disorientamento" all'interno delle istituzioni militari borboniche che sfociò in un succedersi quasi frenetico di ristrutturazioni e riforme. Questa irrequieta evoluzione delle strutture militari delle Due Sicilie si fermò solo con l'ascesa al trono di Ferdinando II, il quale seppe finalmente stabilizzare e razionalizzare gli ordinamenti militari del regno, dandogli un'impronta definitivamente nazionale e dinastica. Tuttavia l'evoluzione del quadro politico europeo e napoletano di quegli ultimi 30 anni, che coinvolse a pieno l'esercito delle Due Sicilie, fece sì che il dissenso politico si rivolgesse direttamente contro la stessa casa regnante borbonica.[5]

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L'insediamento della dinastia borbonica

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Nel 1734 si ebbe il passaggio del Regno di Napoli e del Regno di Sicilia dal dominio asburgico a quello borbonico per effetto della guerra di successione polacca. Nei due secoli precedenti l'Italia meridionale e la Sicilia furono parte dell'Impero Spagnolo come vicereami; successivamente, nel 1707, il regno di Napoli passò all'Austria, nell'ambito della guerra di successione spagnola, mentre il regno di Sicilia venne donato a Vittorio Amedeo II di Savoia nel 1713 con la pace di Utrecht.

L'autonomia dei regni di Napoli e di Sicilia dalla corona spagnola, sebbene i due regni rimanessero ancora legati a quest'ultima per motivi dinastici, fu ottenuta grazie all'azione diplomatica di Elisabetta Farnese, seconda moglie del re di Spagna Filippo VElisabetta Farnese rivendicò i territori italiani per i propri figli, esclusi dalla successione al trono spagnolo da Don Ferdinando, figlio di primo letto di Filippo V. Nel 1734, pertanto, l'infante don Carlos, primogenito di Elisabetta Farnese, assunse le corone di Napoli e di Sicilia col nome di Carlo di Borbone dando origine di fatto ad un regno autonomo, anche se "formalmente" il Regno delle Due Sicilie (unione dei due regni, di Napoli e Sicilia) nacque solo nel 1816. Per poter prendere possesso del nuovo regno[senza fonte], Carlo di Borbone giunse in Italia già tre anni prima, nel 1731, accompagnato da oltre 6.000 soldati spagnoli, valloni e irlandesi, guidati da Manuel d'Orléans, conte di Charny, a cui si aggregarono altrettanti fanti e cavalieri italiani guidati da Niccolò di Sangro, i quali contribuirono alla decisiva vittoria di Bitonto il 25 maggio 1734.

 

 

Carlo di Borbone

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Conquistato il regno il 10 maggio 1734, Carlo di Borbone diede un primo ordinamento all'esercito regio: le forze militari vennero aumentate a 40 battaglioni di fanteria, 18 squadroni di cavalli (nove di dragoni e nove di cavalleria propriamente detta), un corpo considerevole di artiglieri e un altro di ingegneri.

La data di nascita ufficiale dell'esercito napoletano va collegata però alla legge del 25 novembre del 1743, con la quale il re Carlo dispose la costituzione di 12 reggimenti provinciali, tutti composti da cittadini del Regno, affiancati da reggimenti con soldati svizzerivalloni e irlandesi. Furono create anche delle compagnie di fucilieri da montagna sul modello dei micheletti catalani, lontane antenate delle truppe alpine, le cui caratteristiche ordinative, di armamento e di equipaggiamento ne fecero il primo modello del genere nella storia dell'Italia militare moderna. Nella primavera dell'anno successivo il neonato esercito subì il primo collaudo, contro gli austriaci, alla battaglia di Velletri. Essa segnò la sua prima, grande vittoria, cui parteciparono reggimenti interamente napoletani, come il "Terra di Lavoro" (il quale dopo la battaglia poté fregiarsi del titolo di "Real", riservato ai soli reggimenti veterani), comandato dal duca di Ariccia, che ressero il confronto con i reggimenti stranieri di più antica tradizione.

Questa battaglia fu l'apice della guerra di successione austriaca in Italia, in seguito alla formazione di un'alleanza tra AustriaGran Bretagna e Regno di Sardegna volta a spodestare Carlo di Borbone dal trono di Napoli. Questo compito fu affidato all'esercito austriaco, che, con un'armata comandata dal principe von Lobkowitz, dopo un lungo assedio, la notte del 10 agosto 1744 attaccò di sorpresa i napoletani stanziati nella città di Velletri. La battaglia vide inizialmente il successo degli austriaci, che tuttavia non riuscirono a scacciare definitivamente le truppe del re Carlo dalla cittadella. La reazione napoletana non tardò ad arrivare e le truppe borboniche, con un'iniziativa del conte di Gages e dello stesso re, riuscirono infine a sconfiggere l'armata austriaca, costretta a ritirarsi rovinosamente anche in seguito all'arrivo di rinforzi napoletani da Gaeta e dagli Abruzzi.[6]

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Ferdinando IV

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Nel 1759 Carlo di Borbone salì al trono di Spagna col nome di Carlo III; a Napoli gli succedette il suo terzogenito Ferdinando, di soli 9 anni[8], sotto un consiglio di reggenza in cui si distingueva il ministro Bernardo Tanucci. Negli anni successivi il riformismo del Tanucci in campo militare fu limitato da Maria Carolina, divenuta nel 1768 regina di Napoli, la quale nel 1776 riuscì a defenestrare il Tanucci e favorire l'ascesa dell'ammiraglio Acton, a cui nel 1778 fu affidato il Ministero della Guerra.

Negli ultimi anni del regno di Carlo III, a causa del lungo periodo di pace vissuto in Italia, le cure per l'Esercito furono trascurate e la forza armata continuò ad essere regolata da ordinamenti ormai superati. Altro fattore che condizionava l'evoluzione dell'Esercito era la relativa facilità con cui era possibile difendere i pochi punti di accesso della frontiera terrestre del reame, a partire dai Presidi di Toscana, vero e proprio antemurale del regno, fino alle poderose piazzeforti di GaetaCapuaCivitella e Pescara, che sbarravano la strada a chi intendesse penetrare dal Lazio e dagli Abruzzi. Pochi punti deboli erano presenti nella frontiera napoletana, tra questi principalmente le Gole di Antrodoco, ma nonostante la disponibilità di risorse finanziarie e la presenza di popolazioni fedeli e bellicose alla frontiera, non si intraprese mai una vera e propria opera di difesa totale dei confini terrestri.[9] Tale stato di cose si protrasse per alcuni anni anche con il nuovo sovrano Ferdinando IV, finché la regina Maria Carolina non si fece promotrice del potenziamento e del sostanziale rinnovamento delle forze armate delle Due Sicilie, avvalendosi dell'ammiraglio John Acton.

Acton attuò una serie di riforme dell'apparato militare del regno che tuttavia, al momento dell'invasione napoleonica del Reame, non erano ancora totalmente compiute. Per quanto riguarda l'esercito, l'Acton cercò di migliorare la preparazione degli ufficiali eliminando alcuni corpi con funzioni di parata, fondando l'accademia della Nunziatella e incrementando gli scambi formativi con l'estero (in particolare con la Prussia e la Francia). Acton introdusse delle utili innovazioni (favorì le conoscenze topografiche finanziando fra l'altro Rizzi Zannoni[10], costruì nuove strade, eccetera); le forze armate, così rinnovate, sostennero più che degnamente la loro prova del fuoco all'assedio di Tolone, nel quadro della prima alleanza con l'Inghilterra contro la Francia rivoluzionaria. Seimila soldati napoletani parteciparono alla difesa della città e furono gli ultimi a reimbarcarsi. Il corpo di spedizione rientrò in patria il 2 febbraio 1794, avendo avuto circa 200 caduti e 400 feriti.

Nel biennio 1796-1798 si ricorda in particolare l'ottima prova data dalla divisione di cavalleria napoletana, formata dai reggimenti "Re", "Regina", "Principe" e "Napoli", nelle operazioni della Campagna d'Italia contro i francesi. I cavalieri napoletani, comandati dal brigadiere Ruitz, ricevettero lodi sia dagli alleati austriaci che dai nemici francesi (tra cui lo stesso Napoleone Bonaparte).[6]

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Il successo francese nell'Italia del nord portò alla formazione di una Seconda Coalizione antifrancese a cui aderì, su particolare sollecitazione della regina Maria Carolina, nuovamente il regno borbonico. Le truppe napoletane, guidate dal generale austriaco Karl Mack von Leiberich, nell'autunno del 1798 invasero la Repubblica Romana andando ad occuparne la capitale e reinsediandovi il Papa. Qui l'esercito borbonico riportò alcuni successi iniziali che costrinsero il generale francese Championnet ad una breve ritirata oltre il Tevere. A Roma il generale Mack dispose le truppe borboniche in maniera disomogenea, rendendo di fatto difficoltosa un'eventuale difesa della città. Il 5 dicembre 1798 i generali Championnet e Macdonald passarono alla controffensiva, riportando una schiacciante vittoria che ebbe come conseguenze la rioccupazione di Roma da parte dei francesi e lo sbandamento di gran parte dell'esercito napoletano. Questa sconfitta provocò l'occupazione francese di Napoli e la fuga di Ferdinando IV in Sicilia. L'ingresso delle truppe francesi a Napoli fu caratterizzato da una dura repressione della reazione legittimista della plebe cittadina (i cosiddetti "lazzari"). Si ebbe così la nascita della Repubblica Partenopea, guidata da alcuni dei più celebri intellettuali del tempo.

Ferdinando IV, rifugiatosi in Sicilia, incaricò il cardinale Fabrizio Ruffo di organizzare la crescente resistenza antifrancese sviluppatasi nel frattempo tra i ceti più poveri delle province continentali (specialmente nelle Calabrie), per formare un'armata in grado di riconquistare il Regno di Napoli. Questa armata di popolani, a cui fu dato il nome di Esercito della Santa Fede, riuscì in breve tempo a riconquistare le Calabrie sfruttando le grandi difficoltà dell'occupante francese nel controllo del territorio. Ai "sanfedisti" si aggiunsero ben presto altri reparti stranieri della coalizione antifrancese che resero più facile la riconquista delle province napoletane. Approfittando dell'invasione russa dell'Italia settentrionale, e del conseguente decremento delle truppe francesi a Napoli, l'esercito sanfedista il 13 giugno 1799 riprese il controllo della capitale, riportando i Borboni sul trono di Napoli.

Grazie alla spedizione austro-russa nell'Italia settentrionale ed alla conseguente ritirata dell'Armee de Naples oltre il Po, le truppe napoletane e sanfediste si spinsero nuovamente in territorio pontificio con l'intenzione di occupare parte del Lazio e delle Marche come risarcimento per l'invasione francese, anche grazie alla collaborazione di bande locali aggregate all'esercito del cardinale Ruffo. Nonostante l'accordo diplomatico raggiunto con la Russia, nell'autunno del 1799 i territori pontifici furono occupati dagli austriaci, che ripristinarono la frontiera preesistente (nonostante i reclami del governo borbonico).[9]

Nel Regno di Napoli l'eredità della guerra civile fu più pesante che nel resto d'Italia. Il potere acquisito dalle truppe sanfediste, capeggiate spesso da famigerati briganti, fu causa di crimini e violenze perpetrate indiscriminatamente contro i "giacobini" e contro le stesse autorità reali, che cercavano di ristabilire l'ordine politico e sociale. Il re cercò di arginare il problema includendo molte delle "masse" sanfediste nel nuovo esercito napoletano, nonostante l'opposizione dei generali.[9]

Seguì un breve periodo di pace, dominato da una politica diplomatica instabile nei confronti delle potenze contrapposte e da violente repressioni nei confronti dei liberali coinvolti nell'esperienza repubblicana del 1799.

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Campo Tenese e il decennio francese

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Nel 1805 la pace tra le potenze assolutiste e l'Impero Francese venne nuovamente meno e la regina di Napoli, Maria Carolina, in seguito alla grande vittoria napoleonica ad Austerlitz, si schierò ancora una volta in maniera decisa dalla parte della coalizione antifrancese (la Terza), coalizione a cui l'11 aprile 1805 aderì anche il reame borbonico. Napoleone decise così di mettere fine una volta per tutte alla dinastia borbonica a Napoli, inviando nell'Italia meridionale un'armata guidata dal generale Andrea Massena e da suo fratello maggiore, Giuseppe Bonaparte. L'Armee de Naples entrò nel regno borbonico il 10 febbraio 1806 ed occupò subito il nord della Campania e gli Abruzzi, incontrando una tenace resistenza solo a Gaeta ed a Civitella. Il 15 febbraio 1806 Giuseppe Bonaparte entrò a Napoli alla testa delle truppe francesi.

 

Gioacchino Murat Re di Napoli in uniforme da ussaro

Nel frattempo le truppe borboniche avevano approntato una linea di difesa tra la Basilicata e la Calabria, ai piedi del Pollino, che si reputava quasi inaccessibile. Il comandante delle truppe napoletane, Damas, si aspettava di essere attaccato sul versante orientale del fronte, in previsione di un'avanzata francese dalle Puglie. Su questa posizione Damas intendeva sfruttare le linee di difesa parallele rappresentate dai fiumi che della Basilicata sfociavano nel Mar Ionio in direzione della Calabria, logorando mano a mano le truppe francesi in avanzata da oriente. Tuttavia i generali francesi erano ben consapevoli della superiorità della propria fanteria, formata da esperti veterani, e conoscevano altrettanto bene la debolezza delle truppe napoletane, formate in gran parte da ex sanfedisti privi di istruzione militare e da reclute inesperte chiamate alle armi con la leva del 1804. Così, a partire dal 4 marzo 1806, l'ala occidentale delle truppe francesi (comandata da Jean Reynier) travolse le deboli difese del Vallo di Diano e dei contrafforti occidentali del Pollino, giungendo a Campo Tenese, un altipiano ricoperto di neve ed esposto alle intemperie presso Morano. Qui la mattina del 9 marzo il generale Damas, colto di sorpresa, cercò di far trincerare le truppe napoletane nel terreno gelato usando come quartier generale un convento, in attesa dell'arrivo di rinforzi dall'ala pugliese dello schieramento borbonico (comandata da Rosenheim). Invano Damas attese Rosenheim, e resosi conto dell'impossibilità di difendere la posizione, nonostante il buon comportamento tenuto delle truppe, il generale borbonico si decise a ritirarsi verso il sud della Calabria, dove le truppe superstiti avrebbero seguito la famiglia reale in Sicilia. Le truppe di Rosenheim in Basilicata invece, avuta notizia della sconfitta di Campo Tenese, tagliate fuori dalle linee di rifornimento e stremate dalle marce e dal rigido inverno, andarono incontro ad un inesorabile sbandamento.[9]

Solo le fortezze di Civitella del Tronto (comandata dal maggiore Matteo Wade) e di Gaeta (comandata dal generale Luigi d'Assia-Philippsthal), oltre che buona parte delle Calabrie, resistettero con efficacia alle truppe francesi. Ferdinando IV, sconfitto, riparò nuovamente in Sicilia con l'intera corte napoletana. Giuseppe Bonaparte, incoronato re di Napoli, inaugurò così il fondamentale "decennio francese".

Con la conquista francese di gran parte dell'Italia, il trono di Napoli venne affidato in un primo momento a Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, e successivamente a Gioacchino Murat, uno dei più brillanti comandanti dell'impero napoleonico. Durante il decennio francese, quindi, la monarchia borbonica detenne il solo Regno di Sicilia, mentre i napoleonici assunsero il controllo del Regno di Napoli, che fu dotato di un nuovo esercito e di una nuova legislazione di impronta napoleonica. Tale forza armata venne impiegata sui più importanti fronti europei, dalla guerra d'indipendenza spagnola alla Campagna di Russia. Il nuovo esercito napoletano fu impiegato anche nel tentativo di Murat di unificare l'Italia, ma fu respinto dalla reazione austriaca. Gli eventi successivi posero fine al breve ma intenso regno murattiano, i cui ordinamenti militari incisero notevolmente su quelli successivamente adottati del restaurato Stato borbonico.

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La Restaurazione

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Ferdinando I

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Con la Restaurazione si ebbe la nascita del Regno delle Due Sicilie, dall'unione formale dei due regni di Napoli e Sicilia: Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia divenne quindi Ferdinando I delle Due Sicilie. Fu necessario uniformare le leggi ereditate dai due regni e riordinare quindi la struttura delle forze armate. Fu creato un "Supremo consiglio di guerra" composto da generali dei due eserciti; ma quelli dell'ex Regno di Napoli, per lo più murattiani, premevano per conservare le regole introdotte a Napoli durante il periodo napoleonico, fra cui la coscrizione, mentre quelli dell'ex Regno di Sicilia vi si opponevano. L'ordinamento finale, di impronta murattiana, stabilì infine la nascita di 52 battaglioni di fanteria, composti da 47.000 soldati, e 24 squadroni di cavalleria, composti da 4.800 cavalieri. Altri 5.000 uomini appartenevano all'artiglieria ed al genio, per un totale di circa 57.000 uomini.

La rivolta costituzionale del 1820, scoppiata a causa degli ufficiali di cavalleria Michele Morelli e Giuseppe Silvati, sancì l'incontro tra lo spirito settario e quello militare. La richiesta di una costituzione fu infatti esplicitamente appoggiata da gran parte dei vertici militari napoletani, specialmente quelli con un passato napoleonico, e fu infine accolta da Ferdinando I. Questo avvenimento causò la reazione della Santa Alleanza, che, tramite l'intervento di un'armata austriaca, decise di occupare militarmente Napoli per ristabilire l'assolutismo. L'esercito napoletano costituzionale, comandato da Guglielmo Pepe, fu sconfitto ad Antrodoco il 7 marzo 1821 dalle truppe austriache, costringendo infine Ferdinando I a revocare la costituzione. In seguito all'occupazione austriaca del Reame il Re congedò temporaneamente l'esercito, che si credeva largamente contaminato da infiltrazioni carbonare, e soppresse la coscrizione obbligatoria. Si pensò quindi di lasciare per qualche tempo i compiti della difesa del Reame al contingente di occupazione austriaco. La riorganizzazione delle truppe nazionali prese avvio solo nel 1823, tuttavia alle unità napoletane furono assegnati, in un primo tempo, unicamente compiti di polizia.[5]

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Francesco I

Alla morte di Ferdinando I (4 gennaio 1825), suo figlio Francesco decise di rinunciare alla protezione dell'Austria, le cui truppe, giunte in soccorso della monarchia borbonica durante i moti costituzionali del 1821, ancora permanevano nel regno a spese del governo di Napoli. Le truppe austriache lasciarono la Sicilia nell'aprile 1826 e le province continentali nel gennaio-febbraio 1827[11]. Per sopperire al licenziamento delle truppe austriache, il sovrano decise di costituire quattro reggimenti di soldati svizzeri professionisti, con l'obiettivo di formare un solido nucleo di truppe del tutto estranee alle vicende politiche del Reame. Raggiunsero il Regno delle Due Sicilie circa seimila soldati svizzeri: nel 1825 furono infatti sottoscritti contratti di durata trentennale con i vari cantoni elvetici per il loro reclutamento[11].

Per quanto riguarda le truppe nazionali invece nel 1827 si ritornò all'organizzazione pre-1821 ed alla coscrizione obbligatoria. La novità più rilevante fu rappresentata dall'espulsione dall'esercito di tutti quei militari che avevano preso parte ai moti costituzionali, dei quadri murattiani e dei sospetti carbonari.[12]

Alla morte di Francesco I, avvenuta il 5 novembre 1830, la composizione del Real Esercito era la seguente[13]:

CASA REALE

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Dopo il 1830

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Ferdinando II

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Ferdinando II ascese al trono appena ventenne, l'8 novembre 1830. Nonostante la giovane età, il nuovo sovrano era dotato di buone competenze militari essendo stato introdotto alla vita militare all'età di 15 anni, sviluppando un interesse verso l'organizzazione delle forze armate. Fin dalla sua nomina a capitano generale dell'esercito, avvenuta nel 1827, compì una costante azione riformatrice: l'esercito delle Due Sicilie infatti fu oggetto di cure assidue da parte del sovrano. Appena salito sul trono provvide a reintegrare nelle loro funzioni gli ufficiali murattiani radiati da Francesco I. Questa scelta fu dettata dalla volontà di giovarsi dell'esperienza delle guerre napoleoniche in possesso di quegli ufficiali: le loro capacità tecniche erano giudicate dal re fondamentali per la creazione di un valido sostegno alla monarchia. Tra questi ufficiali spiccava la figura del principe Carlo Filangieri, che nel 1833 fu nominato Ispettore dei Corpi Facoltativi (Artiglieria, Genio, Scuole), considerati al tempo la punta di diamante delle forze armate borboniche.[12]

Negli anni trenta e quaranta furono stabiliti nuovi organici e nuovi ordinamenti. Nel periodo 1831-34 fu approvata una nuova legge sul reclutamento: questa e altre riforme, ispirate al modello francese dell'Esercito di Caserma (o permanente), stabilivano che i corpi del Real Esercito dovessero essere formati soprattutto attraverso il reclutamento o il prolungamento del servizio di leva, in modo da avere una forza armata il più possibile professionale. In meno di un decennio le riforme ferdinandee modellarono un esercito essenzialmente formato da professionisti, con un consistente nucleo di soldati a lunga ferma. L'apporto delle classi di leva era ridotto, andando ad incidere mediamente solo su un quarto degli organici totali (in tempo di pace), a tutto vantaggio dei livelli di inquadramento e di addestramento. Tutto ciò contribuì a fare in breve tempo del Real Esercito uno strumento adeguatamente efficiente e moderno, adatto alle esigenze nazionali e internazionali dell'epoca, completamente rinnovato moralmente e materialmente.[12]

L'alta incidenza di reparti scelti (specialmente Cacciatori e Granatieri) assicurava una certa capacità di adattamento alle realtà del terreno. La cura riservata ai corpi dell'Artiglieria, del Genio ed alle Scuole di formazione fornì alla forza armata un'elevata qualificazione culturale. La Cavalleria, forte dei numerosi allevamenti locali e delle tradizioni che ne facevano uno dei corpi migliori dell'esercito borbonico, vantava una diversificazione di specialità (dragoni, lancieri, ussari, cacciatori e carabinieri a cavallo) tale da assicurare mobilità ed adattabilità in tutti gli ambienti operativi.[12]

Ferdinando II intraprese il potenziamento dell'Esercito anche ricorrendo ad una politica economica autarchica, a tal proposito scrive il De Cesare:

«Tutto ciò che era necessario all'esercito si costruiva o si provvedeva nel Regno. Alla Mongiana si fabbricava il materiale metallurgico per l'artiglieria, a Napoli si fondevano i cannoni, a Torre Annunziata si facevano i fucili, a Pietrarsa le macchine per i legni da guerra, a Scafati le polveri, a Capua c'era un opificio pirotecnico e a Napoli un ufficio topografico, diretto dal colonnello del genio Visconti, matematico di gran valore. A Castelnuovo esisteva una sala d'armi antiche e moderne, abbastanza importante.»

([14])

L'esercito riformato da Ferdinando venne messo immediatamente alla prova sia sul fronte interno che all'estero durante il biennio 1848/49. Esso partecipò alla prima guerra di indipendenza italiana dando ottima prova di sé nelle battaglie di Curtatone e Montanara e di Goito, e mise in atto una decisiva operazione anfibia per riconquistare la Sicilia dopo i moti del '48.

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Nel 1848 Ferdinando II, cavalcando il clima di grandi aperture politiche del periodo, decise di dare manforte ai sabaudi e agli altri stati italiani in guerra contro l'impero austriaco. Il 29 maggio 1848, a Montanara, il 10º reggimento fanteria "Abruzzi" e il battaglione dei volontari napoletani, affiancati ai volontari toscani (comandati dall'esule napoletano Leopoldo Pilla) per un totale di 5.400 uomini, si ritrovarono a dover fronteggiare circa 20.000 austriaci comandati dal maresciallo Radetzky. Nonostante la schiacciante inferiorità numerica, le truppe napoletane si batterono con grande slancio, attaccando più volte alla baionetta le postazioni di artiglieria austriache per tenere la posizione. Nella battaglia di Curtatone e Montanara caddero 183 tra soldati e volontari napoletani. La bravura dimostrata dalle truppe borboniche in questa occasione fu premiata dallo stesso Carlo Alberto di Savoia con il conferimento ai napoletani di numerose onorificenze sabaude. Il successivo 30 maggio a Goito i reparti del 10º Reggimento fanteria "Abruzzi" si resero nuovamente protagonisti, in quanto gli venne ordinato di tenere la posizione ad ogni costo per arginare l'avanzata austriaca. I Napoletani resistettero all'urto di Radetzky e tennero la posizione con grandi sacrifici, favorendo in maniera determinante la vittoria finale sarda. Anche in questa occasione molti ufficiali napoletani furono decorati con le massime onorificenze sabaude per mano dello stesso generale Bava, comandante piemontese del settore.

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In seguito alla rivoluzione siciliana del 1848, Ferdinando decise di mandare un corpo di spedizione anfibio in Sicilia per reprimere i moti popolari. Il 6 settembre 1848, dopo un lungo bombardamento alla città di Messina da terra e da mare, insieme alle truppe della Real Cittadella, che non si era arresa agli insorti, sbarcò nei pressi della città il Reggimento "Real Marina" (truppe anfibie) che, in seguito a duri combattimenti, creò una testa di ponte che rese possibile lo sbarco degli altri contingenti terrestri. Le truppe del Real Esercito, comandate dal generale Carlo Filangieri, riconquistarono nel maggio 1849 l'intera isola, riportandola sotto il dominio borbonico. Quest'operazione bellica fu all'epoca elogiata da molti osservatori esteri per l'uso efficace delle truppe da sbarco.

Tuttavia l'esperienza della partecipazione alla prima guerra di indipendenza ed alla repressione dei moti siciliani aveva innescato alcuni delicati meccanismi. Le truppe avevano in generale dato prova di fedeltà alla corona, di efficacia professionale e di reattività. Ma quando l'ordine di rientro a Napoli raggiunse il Corpo di spedizione borbonico in Italia settentrionale comandato da Guglielmo Pepe (maggio 1848), imponendogli di abbandonare le operazioni contro gli austriaci, una parte dei quadri e dei soldati si ribellò per l'umiliazione di dover rientrare (tragicamente simbolica la vicenda del colonnello Carlo Lahalle, che si suicidò dinanzi alla propria brigata). Molti celebri ufficiali napoletani (tra cui lo stesso Guglielmo Pepe, Enrico CosenzCesare RosarollGirolamo Calà UlloaCarlo Mezzacapo e Alessandro Poerio) continuarono la campagna partecipando alla difesa di Venezia. Molti furono combattuti tra il sentimento di fedeltà al sovrano e quello verso la causa nazionale. La discriminante politica, sopita nel primo ventennio di regno ferdinandeo, riemergeva ora prepotente, iniziando lentamente ad incrinare la compattezza della forza armata.[12]

Dopo il 1848 e fino alla morte di Ferdinando II il Reame visse un decennio di "immobilismo" che influì in maniera decisiva sui successivi avvenimenti. Il Real Esercito, che nel 1849 aveva permesso al sovrano di restaurare l'assolutismo senza aiuti esterni, continuò ad essere oggetto di notevoli attenzioni, ma la riaffermazione e l'inasprimento dell'assolutismo borbonico si ripercosse sull'esercito con un crescente controllo politico del sovrano sulla forza armata. Questo generò l'esodo di un'intera generazione di giovani ufficiali, i quali, in seguito alla svolta reazionaria di Ferdinando II, abbracciarono gli ideali liberali e della causa italiana. La conseguenza più grave sull'efficacia delle forze armate in quegli anni fu quindi la completa assenza di un valido ricambio generazionale che sostituisse la vecchia classe dirigente murattiana, che perciò nei critici momenti del 1860 si trovava ancora salda al comando del Real Esercito (l'età media dei generali era spesso superiore ai 70 anni). Tutto ciò produsse come conseguenza pratica una grande inefficacia nell'azione (o meglio, inazione) dei vertici militari borbonici durante le operazioni del 1860, cosa che di fatto decretò molti degli insuccessi militari che portarono infine alla conquista del Reame da parte delle armate sarde e garibaldine.[12

 

Francesco II

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L'ultimo sovrano delle Due Sicilie, a differenza del padre, era privo di competenze militari. Nel primo periodo del suo regno si ebbe una rivolta dei Reggimenti svizzeri (7 luglio 1859), causata da avvenimenti tuttora controversi, i cui soldati rientrarono per gran parte in patria. Con i militari rimanenti furono formati dei battaglioni "esteri" in cui si arruolarono, oltre agli svizzeri, molti volontari tirolesi e bavaresi. Anche senza l'apporto di questi reggimenti disciplinati e agguerriti, l'esercito delle Due Sicilie rimaneva comunque molto numeroso e ben armato.

Alla prova dei fatti (in questo caso la spedizione dei Mille) i quadri dirigenti di questo esercito si rivelarono però incapaci di reggere l'urto di un'armata raccogliticcia, meno numerosa, male armata e apparentemente disorganizzata. A seconda dello schieramento politico, gli storici dell'epoca hanno attribuito il tracollo delle Due Sicilie al valore di Garibaldi o al tradimento di molti generali borbonici[15]. La debolezza strutturale del Real Esercito fu tuttavia evidente fin dall'inizio e deve essere attribuita a un complesso di fattori, tra i quali l'isolamento diplomatico, il critico quadro politico italiano e napoletano e, soprattutto, il rifiuto di alti ufficiali, spesso troppo anziani, a sfruttare la netta superiorità di uomini e risorse per motivi essenzialmente politici[16]. Molti quadri dirigenti nei ministeri borbonici infatti erano convinti che la guerra sarebbe stata interrotta dall'azione diplomatica delle potenze estere, contro quella che si giudicava un'invasione illegittima[12]. Tuttavia l'isolamento politico in cui Ferdinando II aveva relegato il Regno dopo il 1848 rese impossibile questo avvenimento. Un esempio lampante di questo tipo di comportamento da parte dei quadri superiori borbonici si ebbe nella battaglia di Calatafimi, la prima della spedizione dei Mille, in cui l'8º Battaglione cacciatori, superiore per addestramento e mezzi ai garibaldini, ricevette dal gen. Landi l'inaspettato ordine di ritirarsi proprio nel momento in cui i Mille sembravano rassegnati alla sconfitta[17][18]. Oppure si ricordi l'ordine del generale Lanza a Palermo di far cessare le ostilità alla colonna "Von Mechel" che, giunta nella capitale siciliana dopo un estenuante inseguimento a Garibaldi nell'interno dell'isola, era sul punto di sbaragliare tutte le difese rivoluzionarie. La battaglia di Milazzo (20 luglio 1860) ed il completo abbandono della Calabria in mano garibaldina (dove ci furono molti inquietanti episodi di tradimento da parte di ufficiali superiori[12]) fecero emergere chiaramente l'impressione che il governo napoletano fosse alla ricerca di una soluzione diplomatica al conflitto.[12][19]

Non mancarono tuttavia molti episodi di reazione vigorosa (per esempio la resistenza a Gaeta, a Messina e a Civitella del Tronto, nonché la battaglia del Volturno, la più grande nel corso dell'impresa dei Mille) in cui, pur nella sconfitta, tutti i quadri dell'esercito diedero «un notevole esempio di valor militare e di fedeltà morale e politica»[20]. Francesco II ed i generali rimasti fedeli alla corona, capendo che il Regno era ormai diplomaticamente isolato e lasciato al suo destino dalla comunità internazionale, decisero di risparmiare alla ben fortificata città di Napoli le conseguenze di un eventuale assedio e quindi organizzarono un ultimo grande tentativo di resistenza lungo il corso del fiume Volturno e nelle piazzeforti della pianura campana. Essi ritenevano infatti che la parte settentrionale del Reame sarebbe stata molto più facile da difendere e avrebbe rappresentato un ottimo punto per la controffensiva e la successiva riconquista del regno, non prevedendo un intervento militare del Regno di Sardegna.

I primi combattimenti tra l'esercito borbonico ed i garibaldini sulla linea del Volturno si ebbero nei dintorni di Caiazzo. Qui il generale Colonna di Stigliano riportò una brillante vittoria sulle camicie rosse dell'ungherese Stefano Turr, facendo tra le file avversarie molti prigionieri e catturandone le bandiere.

Il 1º ottobre 1860 le truppe borboniche della piazzaforte di Capua presero l'offensiva e costrinsero Garibaldi ad abbandonare l'iniziativa. La reazione borbonica e la superiorità tattica e tecnica del Real Esercito misero così in seria crisi tutto lo schieramento garibaldino, che parve sul punto di collassare, fino all'inaspettato arrivo delle truppe dell'esercito sabaudo a dargli manforte[12]Capua, con l'arrivo dei piemontesi, venne sottoposta ad un lungo bombardamento con i nuovi pezzi rigati a lunga gittata in dotazione all'artiglieria sarda, provocandone la resa dopo una tenace resistenza. Allo stesso tempo si combatteva sul Volturno la battaglia decisiva: la vittoria avrebbe rappresentato per i borbonici una reale possibilità di riconquistare il regno.[12]

 

Giovan Luca Von Mechel, costretto suo malgrado da Lanza a cessare le ostilità a Palermo, fu il comandante che diresse la difesa del Garigliano

 

Giosuè Ritucci, comandante delle Reali Truppe al Volturno e governatore della fortezza di Gaeta durante l'assedio

La battaglia del Volturno fu l'unica e vera battaglia campale della guerra, dura e cruenta per entrambi gli schieramenti. I borbonici, liberi finalmente di poter manovrare in campo aperto, benché molto indeboliti dagli avvenimenti precedenti, la condussero in maniera offensiva, comportandosi valorosamente e riuscendo in molti punti ad aprire pericolose falle nello schieramento garibaldino. Tuttavia lo Stato Maggiore del Real Esercito non sfruttò la situazione favorevole, ed evitò di concentrare la forza d'urto dell'offensiva in un solo punto decisivo. Al contrario si optò per una numerosa serie di attacchi diffusi su un vasto scacchiere, smorzando così l'impeto offensivo delle truppe e vanificando le vittorie riportate in molti punti dello schieramento avversario[12]. A ciò si aggiunse l'inaspettato abbandono del litorale campano da parte della flotta francese, che così facendo lasciò il fianco scoperto alle truppe borboniche (nonostante le promesse di aiuto fatte a Francesco II da Napoleone III). Approfittando delle circostanze favorevoli, la flotta sarda si posizionò ben presto lungo la costa campana, cominciando a bombardare assiduamente il fianco dello schieramento borbonico posizionato lungo il litorale[21].

In queste condizioni il Real Esercito fu costretto a ritirarsi, tentando un'ultima disperata resistenza più a nord sulla linea del Garigliano. Anche in questa occasione i cacciatori diedero un'ottima prova delle proprie capacità militari, riuscendo a bloccare con un manipolo di uomini l'avanzata di tutto lo schieramento avversario fino all'estremo sacrificio, causato dai bombardamenti dall'artiglieria navale della flotta sarda (episodio magistralmente raccontato da Carlo Alianello nella sua opera "l'Alfiere"). La resistenza sul Garigliano consentì al governo ed alla famiglia reale napoletana di rifugiarsi nella fortezza di Gaeta, assieme ai superstiti reparti militari borbonici (circa 13.000 soldati delle varie armi)[12].

Gaeta assediata si consumò la fine dell'epopea della resistenza di Francesco II: 4 mesi di bombardamenti incessanti con pezzi rigati a lunga gittata, senza rifornimenti e senza viveri, con periodiche puntate offensive fuori dalle mura della cittadella. Tutto ciò tuttavia non fiaccò la resistenza degli ultimi soldati delle Due Sicilie, animati solamente dalla volontà di non arrendersi in una guerra ormai persa. Alla fine dell'assedio, avvenuta il 13 febbraio 1861, si contarono tra i difensori più di 1.500 fra morti e dispersi (oltre che 800 feriti fuori dalle mura). Tra le truppe sabaude si contarono invece 50 morti e 350 feriti. Francesco II e Maria Sofia di Baviera si rifugiarono quindi a Roma assieme ai rimanenti ministri borbonici, da dove condussero alcune fasi della resistenza armata nelle Due Sicilie dopo l'unità d'Italia.

Gli ultimi nuclei della resistenza borbonica furono le fortezze della cittadella di Messina e di Civitella del Tronto. La cittadella di Messina, dopo l'occupazione della città da parte dei garibaldini il 27 luglio, comandata dal generale Fergola e presidiata da circa 4 mila uomini (3 reggimenti di fanteria e uno di artiglieria), si arrese, dopo aver resistito all'assedio, al generale Cialdini il 12 marzo 1861.

Nella fortezza di Civitella del Tronto, al contrario, la difesa era affidata solo al alcuni reparti territoriali e di Gendarmeria per un totale di circa 500 uomini, coadiuvati dalla popolazione locale. Pur essendo una delle fortezze più grandi d'Europa, memore di numerosi assedi, l'importanza strategica di Civitella del Tronto era nel 1861 ormai quasi del tutto nulla, in quanto le maggiori vie di comunicazione erano situate da tempo lungo la fascia costiera abruzzese, lontano dalla cittadella, che per questo motivo era all'epoca in fase di restauro. Tuttavia qui la resistenza fu più tenace, e la bandiera borbonica di Civitella fu l'ultima ad essere ammainata. Il comandante della fortezza, il capitano di Gendarmeria Giuseppe Giovine, si ritrovò con poche centinaia di uomini e poche bocche da fuoco antiquate, senza alcuna prospettiva di vittoria, a dover fronteggiare i pezzi rigati ed i reggimenti sabaudi del generale Pinelli, il quale attuò nei confronti dei resistenti una lotta senza quartiere, reprimendo duramente e sommariamente ogni tentativo di resistenza. Le ultime truppe borboniche tuttavia tentarono più volte l'offensiva con sortite al di fuori delle mura, ma la fame, le malattie e la scarsità di armi e munizioni dovute al lungo assedio alla fine ne decretarono la resa. Civitella si arrese solo il 20 marzo 1861, dopo 6 mesi di assedio, giorno nel quale inoltre vennero fucilati per "brigantaggio" alcuni ufficiali e sottufficiali della fortezza.

In questo modo finì la storia militare delle Due Sicilie, i cui soldati, in quei tragici mesi, nel complesso si rivelarono sempre più combattivi e fedeli dei propri quadri dirigenti.[22] Francesco II il 15 febbraio 1861 si congedò dal suo Esercito rivolgendo ai suoi soldati le seguenti parole:

«...grazie a voi è salvo l'onore dell'Esercito delle Due Sicilie. Quando ritorneranno i miei cari soldati al seno delle loro famiglie, gli uomini d'onore chineranno la testa al loro passare...»

(Francesco II di Borbone, re del Regno delle Due Sicilie, 15 febbraio 1861[12])

Al momento della resa di Gaeta il Real Esercito aveva subito perdite pari a circa 23.000 uomini tra morti, dispersi e feriti.[12]

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Fonte: wikipedia

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