top of page
550757_10151165168218311_439689269_n.jpg
Nel 1789
Prima istituzione di assistenza sanitaria gratuita

Sua Maestà Ferdinando IV Re di Napoli e III Re di Sicilia e I Re delle Due Sicilie pone in essere la prima forma Istituzionalizzata di previdenza e di assistenza sanitaria gratuita .

_________

Per chi voglia approfondire.

Se il 1789 rappresenta uno spartiacque della storia moderna europea anche dal punto di vista sanitario, appare sorprendente il tempismo con cui, proprio nel novembre di questo stesso anno, come già evidenziato, il Re di Napoli in persona avesse autorizzato la stampa del Codice di S. Leucio, il cui carattere etico-egualitario (ispirato a un programma di rinnovamento sociale di stampo illuministico) appariva molto aggiornato e moderno anche nella cura degli aspetti socio-assistenziali.

Tale circostanza era del tutto coerente rispetto alle finalità complessive della colonia leuciana – ispirata al concetto, tipicamente settecentesco, di “pubblica felicità” (ossia di benessere psico-fisico della collettività, come ribadito da illuministi del calibro di L. A. Muratori) e, quindi, di salute pubblica – ma rifletteva, al contempo, un obiettivo politico primario dei governi “illuminati”, che nella seconda metà del XVIII secolo vi avevano dato ampio spazio nei loro programmi, ponendo mano a una profonda riorganizzazione del sistema ospedaliero (Garbellotti, 2003, p. 124).


L’interesse dei monarchi nei confronti della salute pubblica, d’altra parte, non era semplicemente un atteggiamento di tipo filantropico, ma espressione della necessità di controllare globalmente il corpo sociale su cui esercitavano la propria legislazione nonché «garanzia di efficienza, di produttività, di ricchezza», che li spingeva altresì a «interessarsi direttamente delle condizioni di vita di tutta la popolazione e delle condizioni di lavoro della popolazione attiva» (Cosmacini, 1988, p. 253).

La regolamentazione della sanità pubblica nella Real Colonia di S. Leucio, organicamente correlata ad altri tipi di forme assistenziali contemplate dall’intero corpus normativo, non si limitava tuttavia a emulare le tendenze ideologiche ad essa contemporanee: lo Statuto, infatti, si ispirava concretamente ai più avanzati criteri sanitari del XVIII secolo, che si sarebbero affermati in Europa e nel resto della penisola italiana solo nel corso della prima metà dell’800. Pertanto, diviene possibile rilevarne e apprezzarne il pregnante significato solo ponendoli in correlazione con i principi di regolamentazione sociale, istituzionale ed etica che caratterizzano il documento nel suo insieme, nonché analizzandoli alla luce del contesto utopistico-pianificatorio e, almeno in parte, della coeva situazione storica della medicina e della sanità in Italia.

Rispetto a quest’ultima, la concezione sanitaria del Codice è senza dubbio all’avanguardia, recependo i dettami di «nuova impostazione del problema salute, sia sul piano individuale che sul piano sociale», alla cui luce medici e non medici, nutrono interessi di medicina razionale, di salubrità ambientale, di sanità, di scientificità.

Di qui, contrariamente alla prassi diffusa del tempo, la concezione statutaria dell’ospedale come luogo destinato esclusivamente alla cura dei malati, dotato di una classe medica fornita direttamente dal Re (al servizio dello stato e quindi qualificata) e monitorato quotidianamente per il rispetto delle più elementari nozioni igienico-sanitarie (Ferdinando IV, 1789, pp. 37-38).
Il riformismo dello Statuto contribuisce a dare così avvio al processo formativo dell’ospedale così come oggi concepito, basandosi su una concezione medico-sanitaria lontana dalle finalità genericamente assistenziali, curative ma anche formative, rieducative e repressive degli istituti ospedalieri d’età moderna. Questi ultimi costituivano infatti dei veri e propri centri di accoglienza, controllo e rieducazione per malati, mendicanti, indigenti e disadattati in generale, generalmente considerati (a eccezione dei casi di oggettiva inabilità al lavoro) dei fannulloni e dei parassiti sociali.

Pertanto l’istruzione, a partire dalla seconda metà del Settecento, «cominciò ad essere considerata anche come una sorta di arma per sconfiggere l’ignoranza che stava alla base dei comportamenti devianti», per educare i poveri al lavoro, alla disciplina e ottenerne il recupero sociale. Tali erano i presupposti ideologici dello stesso Albergo dei Poveri di Napoli, conformemente al programma di Tanucci («che moveva dalla premessa etica fondamentale del Genovesi» della necessità di educare il popolo, sollevandolo dallo stato di ignoranza e abiezione in cui versava: Tescione, 1932, p. 126).

Il Codice di S. Leucio, pur accogliendo tali istanze, le affronta con criteri moderni, predisponendo per ciascuna di esse una differente e peculiare destinazione istituzionale: la “Cassa della Carità”, per il sostegno materiale ed economico di quanti fossero divenuti inabili al lavoro per causa di forza maggiore (nonché, in caso di morte, per il pagamento delle spese necessarie all’esequie); la “Casa degli Infermi” (ossia l’ospedale), con funzioni curative e assistenziali di tipo sanitario; la “Scuola normale”, per la formazione scolastica e lavorativa dei fanciulli di entrambi i sessi, obbligatoria a partire dai sei anni di età.
Tra questi istituti, la “Cassa della Carità” è dunque delegata a sostenere le spese di assistenza socio-sanitaria ai coloni in difficoltà. La sua denominazione, tuttavia, risulta ingannevole, lasciando immaginare che si fondi su principi generici di associazione e di solidarietà umana (che pure ne costituiscono un presupposto).


Al contrario, la “Cassa della Carità” non rappresenta un istituto di elemosina collettiva, ma una sorta di “fondo malattie”, con finalità analoghe a quelle degli attuali enti di previdenza sociale, «nei quali direttamente o indirettamente si attua l’attività dei gruppi o dello Stato volta ad eliminare negli individui il bisogno di ricorrere alla beneficenza, a prevenire la miseria mediante il concorso di cloro stessi che sono destinati a beneficiarne» (Dal Pane, 1958, p. 317).
Pertanto, la “Cassa della carità”, fondata sul risparmio degli interessati (i contributi mensili e proporzionali al reddito dei lavoratori della colonia) rappresenta un esempio di ente previdenziale ante litteram. I leuciani caduti in miseria «o per vecchiaia, o per infermità, o per altra fatal disgrazia, ma non mai per pigrizia, ovvero infingardaggine» hanno maturato il diritto di essere assistititi in virtù del loro pregresso e costante contributo “previdenziale”. Non a caso, i coloni morosi a oltranza perdono il diritto all’assistenza, sia in caso di disgrazia che di morte, mentre i maleducati, gli oziosi e gli sfaticati recidivi sono espulsi dalla colonia.
La concezione della previdenza socio-sanitaria dello Statuto di S. Leucio s’inserisce quindi a pieno titolo nel moderno sistema di norme e istituti fondati sul diritto dei lavoratori all’assistenza, «compiuta a mezzo di fondi costituiti dai risparmi dei lavoratori stessi». A tale proposito, risultano molto interessanti anche le norme sull’orario di lavoro (tanto più perché quasi sconosciute in quest’epoca), che lo fissavano in due turni, di durata analoga a quella della luce solare, con il solo intervallo del pranzo.

Gli aspetti sanitari del Codice di S. Leucio in comparazione con le prassi sanitarie coeve e successive
Assistenzialismo, economia e politica, dunque, nello Statuto s’intrecciano indissolubilmente, a partire da un’idea di pubblica assistenza, cura e prevenzione molto più ampia di quella strettamente medica, essendo inteso il benessere della persona nel suo significato complessivo, fisiologico, morale, psicologico e giuridico (come emerge anche dal nesso individuato da Ferdinando IV tra il rapido aumento degli abitanti della colonia e la bontà dell’aria, la tranquillità e la pace domestica in cui vivevano).

Non a caso, negli anni Venti, data organica e definitiva sistemazione a tutta la decretazione in materia sanitaria, la legislazione del Regno delle Due Sicilie si rivela «una delle più analitiche e dettagliate degli stati preunitari» (Botti, 1988, pp. 1222-1223).
Se tale circostanza può essere attribuita all’influenza francese sulla presa di coscienza borbonica dell’importanza della salute pubblica per il buon governo del Regno (Botti, 1988, p. 1222), non si può tuttavia dimenticare che il Codice dimostri come, almeno sul piano ideologico e “laboratoriale”, i Borbone avessero impostato in chiave moderna la gestione del problema sanitario ben prima della conquista francese del Regno di Napoli.
Gli aspetti innovativi in campo sanitario del Codice, d’altra parte, rientrano nelle finalità sociali insite nell’esperimento di S. Leucio e nel piano di iniziative organicamente coordinate promosse da Ferdinando IV, basate su un consolidato corpus legislativo: gli articoli richiamano infatti elementi di diritto privato, pubblico, civile e penale e, per alcuni versi, riflettono atteggiamenti culturali caratteristici della cultura del XVIII secolo (tra cui la condanna senza appello dei fannulloni e dei renitenti al lavoro).

L’ispirazione giuridica del Codice coesiste inoltre con quella religiosa, subito affermata nella pagina iniziale del testo, con il richiamo all’obbligo di osservare la Legge divina dell’amore verso Dio e verso il prossimo (prima regola che Ferdinando impone ai suoi coloni: Ferdinando IV, 1789, p. 11), seguito dall’elencazione dei “Doveri negativi” (Cap. I)[16] e dei “Doveri Positivi” (Cap. II: cfr. nota 2).

Nell’ambito di questi ultimi rientrano le regole sanitarie, con preliminari e importanti richiami alle norme igieniche fondamentali per il vivere civile. Ai coloni-lavoratori, infatti, è innanzitutto ordinato «che estrema sia la nettezza, e la polizia sopra le vostre persone […]: che questa polizia sia anche esattamente osservata nelle vostre case, acciò possa godersi di quella perfetta sanità, ch’è tanto necessaria nelle persone, che vivono con l’industria delle braccia». L’osservanza della norma è oggetto di verifica e controllo quotidiano da parte dei magistrati civili (detti “Seniori del popolo”), vigilanti della colonia con funzioni di giudici di pace, i cui rapporti sono consegnati direttamente al re (Ferdinando IV, 1789, pp. 23-24 e p. 44).

Se il richiamo alla scrupolosa cura della pulizia personale e delle abitazioni può oggi sembrare quasi superfluo, se ne comprenderà appieno la ragione in considerazione della sua estrema importanza non solo per il decoro personale e il rispetto della convivenza sociale, ma anche per la prevenzione delle malattie infettive ed epidemiche, a fronte dell’esistenza tra la popolazione del XVIII secolo di abitudini e convincimenti arcaici e pseudo-religiosi, spesso sostenuti dagli stessi medici, tra cui quello di lavarsi poco o di non lavarsi affatto, soprattutto in caso di malattia (Cosmacini, 1988, pp. 214-215).
D’altra parte le condizioni materiali dei lavoratori del tempo e nel resto d'Europa erano decisamente miserrime: nei primi stabilimenti manifatturieri, le testimonianze storiche sottolineano come «gli imprenditori non si preoccupassero dell’igiene del lavoro»: i procedimenti tecnici in uso, spesso pregiudizievoli alla salute degli operai, «non erano accompagnati dalle misure igieniche necessarie a prevenire le dannose esalazioni delle materie lavorate, le attive condizioni dell’ambiente di lavoro, le malattie professionali […] Del resto lo stato di fatto si rivela in tutto rispondente alla modesta cultura igienica del tempo alle scarse preoccupazioni governative per questo ordine di pubblici interessi, per la stessa igiene generale».

Aggiunta alla denutrizione e alla fatica eccessiva dei lavoratori, tale situazione favoriva il proliferare dei contagi, drammaticamente diffusi in questo periodo: se a metà Settecento la peste era scomparsa dall’Europa, «un altro flagello, il vaiolo, ha preso il suo posto nel determinare la morbosità-mortalità catastrofica della popolazione europea.

Di qui il richiamo del Codice all’ordine e alla massima pulizia possibili, con particolare riguardo alla “Casa degli Infermi”, il centro di accoglienza e di cura per i malati, amministrato da specifici regolamenti interni, e anch’esso quotidianamente ispezionato dai “Seniori del Popolo”, aventi il compito di verificarne le condizioni igieniche e l’esatta e scrupolosa assistenza materiale e spirituale offerta ai malati.
La “Casa degli Infermi” è dunque progettata in ossequio ai principi di salubrità e disinfezione richiesti dalle sue finalità specifiche. Nel passaggio dalla cosiddetta medicina ‘al letto del malato’ (ossia a domicilio) a quella clinica ‘ospedaliera’ (secondo la definizione del Keel, 2007), nonché alla luce delle più avanzate conoscenze scientifiche del tempo, il Codice si allinea in tal modo alle informative mediche del Settecento, che richiedevano la creazione di ambienti spaziosi, riscaldati e ben ventilati (Scotti, 1984, citato da Garbellotti, p. 126), progettando la costruzione di questa Casa come «separata totalmente dall’altre in luogo d’aria buona, e ventilata»[19], per la cura di tutti gli ammalati, cronici e non (Ferdinando IV, 1789, p. 47).

Questo semplice progetto, pur rimasto tale, appare in tutta la sua importanza se si considera l’abituale stato di disordine, sporcizia e cattivo odore degli ospedali settecenteschi (eclatante, a riguardo, la diffusa e inumana pratica di risparmiare spazio sistemando due malati in uno stesso letto).
Ciò premesso, la funzione prioritaria assegnata dal Codice alla “Casa degli Infermi” è innanzitutto di tipo preventivo: ogni anno, infatti, nei periodi precedenti le grandi epidemie (primavera e autunno), per tutti i ragazzi e ragazze della colonia leuciana è «prescritta la inoculazione del vaiuolo, che i magistrati del popolo faranno eseguire senza che vi s’interponga autorità o tenerezza de’genitori» (Colletta, 1856, tomo I, p. 138), al fine di scongiurare i pericoli derivanti da una loro eventuale esposizione al contagio della terribile malattia.

Il richiamo all’obbligatorietà dell’innesto del vaiolo si richiamava a un dispaccio reale che prescriveva tale pratica in tutto il Regno è uno dei principali elementi di modernità del Codice, che si inserisce in tal modo nel dibattito su una delle più accese questioni scientifiche e culturali dell’Italia del Settecento. Il metodo dell’innesto, detto «della variolizzazione, cioè della inoculazione a scopo profilattico del vaiolo umano (la cui forma più grave, o variola maior, prevale nel Settecento sulla forma più lieve, o variola minor), nasce da una pratica che circassi e cinesi, esperti del male […], attuavano da secoli in Oriente», volta a provocare una manifestazione della malattia in forma lieve, che immunizzava la persona dal contagio. Il dibattito tra fautori e oppositori dell’innesto, tuttavia, a cui presero parte anche intellettuali del calibro di Pietro Verri, non si riduceva schematicamente a una lotta tra progressisti e conservatori, essendo controversi i risultati dell’inoculazione: quest’ultima, di fatto, era priva di un sicuro metodo applicativo e, dunque, se praticata in modo erroneo, diventava rischiosa, in alcuni casi, addirittura letale.

_________
foto: copyrirgt : Bruno Cristillo
Corteo storico San Leucio

bottom of page